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Fare e farsi del male a tavola: le conseguenze degli allevamenti intensivi

 

La nascita degli allevamenti intensivi risale agli anni sessanta con l’aumentata produzione degli antibiotici: solo l’utilizzo massiccio di questi farmaci ha permesso di stipare un gran numero di animali in poco spazio senza rischiare malattie. Ancora oggi, tutte le strutture intensive, siano di bovini, polli, suini o anche pesci, necessitano della somministrazione di farmaci per garantire la sopravvivenza degli animali e la produzione.

 Allevamenti intensivi

 

Un altro elemento che ha consentito il diffondersi dell’allevamento intensivo è stata l’agricoltura intensiva monoculturale, soprattutto il mais che è diventato nella moderna zootecnia l’alimento principale. In questo modo, tutti gli animali, anche gli erbivori sono diventati consumatori di cereali e non più di erba.

La monocultura ha favorito la crescita della globalizzazione: poche multinazionali detengono la maggioranza della produzione e del commercio dei semi di cereali, cinque società controllano il 75 % del mercato dei cereali. Due, Archer Daniel Midlands e Novartis ne controllano il 60%. Le coltivazioni richiedono prodotti chimici come pesticidi, erbicidi fitofarmaci. Le due società già citate controllano anche il 75 % del mercato dell’agrochimica cioè dei prodotti chimici per l’agricoltura.

 

Le conseguenze ambientali, sociali, sanitarie, ecc.

 

Ogm in agricoltura. La spinta produttiva facilita l’introduzione delle coltivazioni geneticamente modificate (OGM). In Italia nel 2003 sono stati individuati migliaia di ettari di mais geneticamente modificato. Già ora, mais e soia modificati possono essere usati nell’alimentazione degli animali. Chi mangia carne non biologica deve sapere che consuma anche semi di cereali modificati.

 

Prodotti chimici. Le monoculture necessarie per la produzione di grandi quantità di cereali necessitano di un elevato aiuto chimico. La produzione di fertilizzanti nel mondo è passata da 15 milioni di tonnellate negli anni ’50 a 140 nel 2000. I pesticidi rappresentavano un Pil di 2 milioni di dollari nel ’50 salito a 140 milioni nel ’99.

Queste sostanze vengono in parte assunte dagli animali, in parte rimangono nei terreni e nelle acque dove contribuiscono ad alterare l’ecosistema.

 

Desertificazione. Le concimazioni chimiche riducono la presenza dell’humus, pertanto la terra perde sostanza organica e si inaridisce: il 40% della pianura padana è a rischio presentando una quantità di materia organica inferiore al 2%.

 

Acqua. Le coltivazioni cerealicole devono essere irrigate: un tonnellata di mais necessita di almeno mille tonnellate di acqua. Produrre un chilo di carne bovina significa consumare circa 13.000 litri d’acqua e un chilo di carne suina circa 4.300. Nel mondo i ruminanti necessitano di 407 miliardi di m3 di acqua e i suini 26 miliardi metri cubi.

 

L’inquinamento. Gli allevamenti intensivi concentrano anche le deiezioni in poche aree, nelle quali l’inquinamento diventa altissimo. Si calcola che gli animali allevati in pianura padana scarichino un quantitativo di inquinanti equivalente ad una popolazione aggiuntiva di circa 126 milioni di persone! In altre parole un suino inquina da 4 a 6 metri cubi di acqua al giorno!

 

Conseguenze sociali: la catena energivora

 

La produzione di mais, frumento, soia e riso ammonta a 1.925 milioni di tonnellate all’anno su 2.050 milioni totali di cereali. Di questi ben il 50% viene utilizzata per alimentare gli animali degli allevamenti intensivi.

Questo significa che un miliardo di persone consuma, attraverso il processo di produzione della carne, metà della disponibilità cerealicola e lascia l’altra metà ai restanti 5 miliardi di persone. Se i cinesi mangiassero la stessa quantità di carne che consumiamo noi occidentali servirebbero tutti i cereali del mondo solo per gli animali utili per loro!

In Italia, il consumo di 80 chili di carne (bovina, suina, pollame, ecc) pro capite all’anno equivale a 500 chili di cereali cioè 0,2 ettari di terreno. Complessivamente, quindi, il consumo di carne italiano necessita di 11.400.000 ettari quando la superficie cerealicola è di 10.275.000. Questo significa che per alimentare gli animali che mangiamo dobbiamo importare notevoli quantità di cereali da altri paesi, normalmente da paesi del terzo mondo, nei quali si producono foraggi a basso costo ma a scapito di produzioni agricole che potrebbero sfamare le popolazioni locali.

Questi enormi quantitativi di cereali sono necessari in quanto ogni animale per crescere deve mangiare, ma come accade agli esseri umani, anche l’animale consuma più di quanto cresce, un bovino ad esempio consuma 11 chili di cereali per crescere di un solo chilogrammo!

Un’altra conseguenza è la chiusura dell’attività per i piccoli allevatori in quanto diminuendo il margine di guadagno, tra spese crescenti e ricavi in diminuzione, le aziende di dimensioni ridotte sono costrette a chiudere, fenomeno inarrestabile da alcuni anni a questa parte.

Inserita nei temi della globalizzazione anche la zootecnia intensiva è soggetta alla delocalizzazione degli allevamenti che infatti già vengono spostati dai paesi occidentali a quelli orientali o del terzo mondo, dove i costi sono inferiori e le normative che regolano la produzione sono più carenti, questo determina problemi di inquinamento, ma anche di maggior sfruttamento degli animali che normalmente in questi paesi non sono soggetti a tutela. Da quei paesi poi le carni e i derivati vengono importati in occidente.

 

Salute umana. Gli allevamenti intensivi vivono sulla somminstrazone di farmaci, sopratutto antibiotici (che sono consentiti) e anabolizzanti (vietati). Gli antibiotici prodotti in Europa sono circa 13000 tonnellate all’anno e di questi la metà, circa 6.500 tonnellate, viene data agli animali. Un bovino mangia, in 18 mesi, circa una quantità di sostanze chimiche pari a circa 5 chili. Antibiotici e sostanze chimiche finiscono nei piatti dei consumatori oltre che nell’ambiente.

Coloro che mangiano i prodotti derivati da questi animali possono andare incontro a fenomeni di antibiotico resistenza, un problema in crescita negli ultimi anni. Altri rischi, legati all’alimentazione carnea di allevamento intensivo sono connessi alla presenza di ormoni anabolizzanti beta agonisti e alla possibilità di sviluppare forme tumorali, cardiopatie e intossicazioni (in particolare per gli addetti).

I problemi legati alla salute sono quelli che allarmano maggiormente l’opinione pubblica, che viene costantemente tranquillizzata, dalle autorità e dai produttori, con il richiamo ai numerosi e qualificati controlli ai quali sarebbero sottoposti gli animali e i prodotti da essi derivati. In realtà la strada dei controlli è totalmente inefficace di fronte a consumi e produzioni sempre crescenti e allo strapotere delle multinazionali della chimica. Il problema dei controlli è la quantità da controllare; solo per fare qualche piccola cifra, si tratta, nel settore zootecnico, di analizzare più di 700 milioni di animali macellati ogni anno in Italia e 12 milioni di tonnellate di mangimi per animali. Inoltre i produttori di sostanze proibite sono in grado, cambiando semplicemente una molecola o un legame chimico di rendere totalmente vani i controlli di laboratorio. Se una sostanza è sconosciuta non può essere rintracciata. Basti pensare che attualmente esistono in commercio decine di molecole somministrate agli animali per aumentare la loro crescita, ma solo una quindicina di queste sono conosciute e dunque cercate nei laboratori degli istituti zooprofilattici. Il mercato ha risolto il problema con l’autocontrollo ad opera delle stesse industrie. Questo però è totalmente legato alla responsabilità dei produttori e non garantisce affatto i consumatori.

 


 

Il malessere degli animali

 

La quasi totalità dei prodotti di origine animale oggi presenti sulle nostre tavole proviene dagli allevamenti intensivi, situati soprattutto nella pianura padana. Queste strutture, oltre a determinare gravi conseguenze sul piano ambientale e sociale, generano condizioni di estremo malessere per gli animali di cui spesso i consumatori non sono consapevoli.

Vediamo quali sono le condizioni in cui facciamo vivere i nostri animali domestici.

Per i vitelli da latte rimangono condizioni di malessere legate all’alimentazione di solo latte, non fisiologica, alla superficie su cui vivono, di solito cemento fessurato, alla somministrazione di sostanze farmacologiche come antibiotici e anabolizzanti (vietati), allo stress causato dal precoce allontanamento dalla madre e ai trasporti, anche lunghi, nei primi giorni di vita, alla vita in un ambiente in cui si concentra una grande quantità di ammoniaca che genera condizioni di sofferenza.

Alla fine del ciclo di ingrasso, che dura circa sei mesi, i vitelli sono pesanti oltre misura, ben oltre i livelli naturali, con grandi difficoltà nel muoversi, con organi escretori interni, fegato e reni, che faticano a smaltire le eccessive quantità di grassi introdotte con il cibo. Vivono tutta la loro vita, sei mesi circa, in uno stato di totale innaturalità che genera malessere e sofferenza.

Diversa ma non certo ottimale è la situazione dei vitelloni da ingrasso, destinati a vivere tra diciotto e ventiquattro mesi. Sono costretti in situazioni di estremo affollamento, molti individui stipati in spazi ristretti. Sono negative non solo le condizioni della superficie, sovente di cemento fessurato, poco gradita agli animali per riposarvi, ma anche il tipo di alimentazione a base di cereali, non naturale per i bovini. I gruppi sono formati, in maniera forzata, dagli uomini per cui la convivenza non sempre è positiva. Sono tutte condizioni che penalizzano gli animali creano condizioni di stress e quindi di malessere.

Anche le vacche da latte non vivono in condizioni etologicamente corrette. Hanno un po’ di spazio a disposizione, in quanto le strutture più recenti prevedono la stabulazione libera, però lo spazio è comunque esiguo rispetto alle loro caratteristiche etologiche e fisiologiche, l’alimentazione è forzata e innaturale e lo sfruttamento intensivo per la produzione del latte fa sì che le razze adattate a questo siano anatomicamente caratterizzate da mammelle sproporzionate, sovente gonfie oltre misura e dolenti, quasi di inciampo nel coricarsi quando piene di latte. Lo stato di stress cui sono sottoposte è evidente anche dal fatto che la loro vita attualmente si aggira intorno ai 5 o massimo 7 anni rispetto ai 40 che potrebbero vivere in natura.

La vita delle scrofe, che dura circa 2 anni mentre in natura vivrebbero anche fino a 18, passa attraverso situazioni mutevoli. Inizialmente, vivono in box, cioè recinti solitamente di cemento nei quali sono rinchiuse fino al momento della prima gravidanza. Dopo l’accoppiamento, sempre più sostituito dalla fecondazione artificiale, vengono trasferite in piccole gabbie di ferro che le fasciano totalmente e impediscono loro ogni movimento, anche quello semplice di girarsi su se stesse. In queste gabbie esse possono semplicemente alzarsi per alimentarsi oppure giacere coricate. Dopo i primi mesi, le scrofe vengono trasferite in box dove aspettano che si completi il ciclo della gravidanza. Pochi giorni prima del parto vengono trasferite nelle gabbie da parto, di nuovo molto piccole. Qui rimangono 40-50 giorni, momento in cui i piccoli sono spostati altrove e le madri ricominciano il ciclo. Nella loro breve vita affrontano circa 3/4 gravidanze, quindi più di metà della loro esistenza trascorre tra le strette sbarre che gli impediscono ogni movimento.

I suini all’ingrasso dopo i tre mesi passano in box di cemento, dove vivono con molti altri.

I maiali in natura grufolano e scavano, invece sui pavimenti di cemento non possono soddisfare questo bisogno. D’estate per mitigare il caldo, non potendo scavare a cercare la frescura del terreno, si ricoprono delle loro feci e urine. Si sporcano a causa delle condizioni di vita imposte dall’ uomo.

In alcune stalle si sta diffondendo l’uso della paglia per formare una lettiera; ciò appare di maggiore conforto per gli animali, anche se permane il problema della stagione estiva, durante la quale il comportamento sarà simile a quello visto nei box con pavimento di cemento, solo che in questo caso è più facile scavare nella paglia.

Sofferenza viene indotta alla pratica della castrazione, fatta nei primi giorni di vita, molto spesso senza anestesia da tecnici e non da veterinari (il cui intervento sarebbe più oneroso).

In tutti gli allevamenti il cui pavimento è formato da cemento fessurato (grigliato in termine tecnico) ci sono fortissime esalazioni di ammoniaca, emanate dalle feci e dall’urina contenuta nei vasconi sottostanti, che induce problemi di irritazione alle vie respiratorie e agli occhi. Per far fronte a questo malessere 8indotto dall’uomo) gli allevatori non trovano di meglio che somministrare altri antibiotici o farmaci in genere.

Gli animali da batteria sono quelli che godono di minor considerazione. I polli e le galline ovaiole vivono attualmente in uno spazio che è largo appena come un foglio di carta di formato A4, quelli standard da fotocopie, spazio che viene moltiplicato per 3 o per 4 a seconda del numero di galline o di polli. In termini “umani” la situazione si può paragonare a 6 persone che vivano per 3 mesi in un ascensore; dal 2009 non verranno più costruiti allevamenti di galline ovaiole in gabbia, dal 2012 non dovranno più esistere e saranno smantellati quelli ancora esistenti. Lo stress induce forte aggressività negli animali che vengono, per questo motivo, sbeccati, pratica dolorosa. La qualità della vita è bassissima con luce costante tenue, alimentazione continua e ritmi giorno–notte totalmente aboliti.

Le stesse regole di “vita negata” valgono per i conigli, le gabbie nelle quali sono costretti a vivere sono estremamente piccole, la superficie su cui devono rimanere non è conforme a quelle che sono le loro esigenze naturali in quanto si tratta di una rete deleteria per le zampe. Non hanno a disposizione una tana in cui nascondersi come invece amano fare in natura.

I polli all’ingrasso vengono immessi in grandi capannoni stipati fino a 20 al metro quadro, di fatto impossibilitati a muoversi anche se non vi sono ostacoli sul pavimento. Essendo la crescita velocissima, la struttura ossea non riesce a sopportare il peso così verso i 25 giorni di vita le articolazioni si deformano diventano dolorose e impediscono i movimenti. Il problema è conosciuto dagli stessi allevatori infatti i capannoni sono percorsi da numerosi distributori di cibo e acqua.

L’atmosfera, come già si diceva per le galline ovaiole, tende ad essere tenue sul grigio soprattutto è sempre uguale sia di giorno che di notte un’atmosfera che quindi annulla il ritmo della vita naturale. Questo fa si che gli animali mangino continuamente stimolati anche da additivi che vengono aggiunti nel mangime e in questo modo crescano molto in fretta.

Neppure i pesci si salvano dalle “attenzioni” umane: i pesci di allevamento subiscono infatti le stesse sorti: stipati in spazi strettissimi nelle vasche metalliche, vivono gli stessi problemi di tutti gli altri animali di allevamento: esigua possibilità di movimento e stress. E di conseguenza somministrazione di farmaci per garantire la riuscita dell’impresa.

In tutte queste situazioni, chiaramente, le esigenze etologiche e fisiologiche degli animali vengono ignorate e in nome dell’interesse e del profitto.

Sia per quanto riguarda le condizioni di malessere ai quali gli animali sono sottoposti, sia per ciò che riguarda la salute umana, questa semplice analisi evidenzia come non esista altra soluzione se non la drastica riduzione dei consumi di carne e di prodotti di origine animale, perché solo se i consumatori impareranno a mangiarne meno e chiedere prodotti biologici potremo garantire una vita migliore agli animali e maggiore sicurezza sul piano alimentare.

 

Articolo originale di Enrico Moriconi.

 

In occasione di Vegan in Festa, riportiamo l’intervento completo del Dott. Moriconi

 

Di Alessandro Docali16/08/2014 Salute

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